Netflix ha pubblicato una serie TV chiamata The Playlist sulla storia di Spotify. Non è da noi fare i critici cinematografici o commentare quanto bene recitino gli attori svedesi o tirare in ballo Akira Kurosawa come pure ha fatto nella sua recensione il Guardian che considera la serie “una visione frustrante”, per le ripetizioni della storia da molteplici punti di vista.
Qualche parolina sul contesto è utile dirla, visto che anche se direttamente non si cita il Partito Pirata, se ne vedono le bandiere e la serie tratta di quell’evento seminale che è stato non solo per Spotify ma anche per il nostro movimento internazionale.
L’incipit dell’azione drammatica è The Pirate Bay (TPB), il sito svedese fondato nel 2003 da una organizzazione denominata Piratbyrån, talvolta erroneamente confusa con il Partito Pirata, che fu fondato qualche anno più tardi proprio per difendere TPB, e senza dubbio aveva molto in comune con Piratbyrån ma formalmente era una cosa diversa.
Utilizzando la tecnologia BitTorrent, TPB ha liberato la più vasta mole al mondo di materiale imprigionato dal copyright. The Pirate Bay è stato, come si dice in gergo, disruptive, molto più di quanto non fosse stato qualche anno prima Napster, a cui va senza dubbio il titolo di progenitore. TPB si è ampiamente meritato il titolo di “sito dei pirati più resistente della galassia” e, come direbbe un famoso politico citando un famosissimo filosofo “la durata è la forma delle cose”.
La drammatizzazione della nascita di Spotify nasce dal confronto critico tra le idee di liberazione dei pirati di TPB e quelle di liberazione minore di Spotify sulla base di un punto qualificante (“il migliore lettore di musica di Internet”) che è però già l’implicita accettazione di una visione piegata alle esigenze di un mercato falsato. L’epilogo era dato nelle premesse: se fai una cosa per piacere al mercato, diventi il mercato e non contribuisci a liberarlo. In questo, con il senno di poi, non si può non apprezzare le scelte di TPB di rimanere ancorati ai valori liberatori originari, senza scendere a compromessi.
Facendo un salto avanti di quasi 20 anni, come fa anche la finzione scenica della serie TV che ci porta addirittura in un ipotetico prossimo futuro, possiamo vedere la situazione. Spotify non è il nuovo mostro che tiene il mondo della musica sotto scacco (come pure la sceneggiatura vuole far sembrare) ma la risposta è piuttosto da ricercare una scena, quasi casuale e forse consolatoria per il fondatore di Spotify, alquanto maltrattato nell’intera serie, in cui lui (e così lo spettatore) prende coscienza, che sono le avide etichette del mondo discografico a continuare ad avere in mano il gioco, il suo gioco. I tecnologi che, adottando le regole del mondo, volevano cambiare il mondo, sono stati cambiati dal mondo, hanno dato più potere a chi lo aveva già e hanno reso peggiore l’ambiente per quei creativi, talentuosi e capaci che affermavano di amare.
The Playlist non poteva proporre una considerazione più aspra di questa, ma anche più attuale. Le piattaforme che hanno effettivamente per un breve periodo risolto un’esigenza sentita come quella di trascinare in basso il costo del prodotto, non hanno spostato di una virgola la questione della libertà. Oggi lo viviamo con grande chiarezza: per ricostruire il puzzle dell’accesso completo ai contenuti dovremmo fare quattro, cinque, sei, forse sette abbonamenti a differenti piattaforme con costi che progressivamente sono diventati sempre più rilevanti.
Ma c’è un aspetto positivo della questione, adesso è chiaro, e la serie TV lo prende come punto qualificante della critica a Spotify (che poi è una critica a ben vedere al mondo discografico, e più in generale dell’editoria), che gli artisti, le persone di talento e capaci di creare qualcosa, non sopravvivono. Non è una novità, non sopravvivono oggi come non sopravvivevano ieri, per una grande massa di wannabe solo pochi riuscivano a sfondare e rimanevano sulla cresta dell’onda, proprio come oggi le star dello show biz, solo fintanto si mostravano burattini docili nelle mani dei propri editori. Ad un 1% di artisti di successo corrispondeva, e corrisponde oggi, un 99% percento di persone di talento ricacciate nell’anonimato. Non è cambiato nulla, solo che Spotify rende evidente la cosa e ancora più urgente una risposta. Si può certamente accusare la pirateria di non proporre un modello di business adeguato per il lavoro creativo, ma non sembra che quello dello sfruttamento praticamente schiavistico dell’industria dei contenuti sia adeguato per il 99% di noi.
The Pirate Bay, forse non è la risposta. La musica distribuita gratuitamente senza fornire agli artisti una remunerazione diretta forse non va bene. Ma forse non ci vuole un modello di business. Forse c’è bisogno di un nuovo stato di cose, un nuovo trattamento del lavoro creativo. Questo però è un problema della società e, a dispetto della pretesa dell’industria editoriale di voler controllare e sfruttare tutto fino all’ultima goccia, o della buona volontà dei tecnici di far funzionare le cose, questo problema va affrontato nel modo in cui i conflitti sociali vanno affrontati: con la politica. Con il Partito Pirata. Le piattaforme hanno solo ritardato una resa di conti che deve ancora esserci. (X)